Pot-pourri di letture

Ciao, è da un bel po’ che non scrivo più sul mio blog, ma di certo non ho mai smesso di macinare libri. Ecco perché ho deciso di condividere le mie letture di questo (lungo) periodo, portandovi i libri che più mi hanno colpita ed emozionata.

  • Non avevo capito niente” di Diego De Silva: romanzo ambientato a Napoli che vede come protagonista un cupo, ma ironico avvocato, Vincenzo Malinconico; sbattuto fuori di casa dalla moglie, costretto a vivere e a lavorare attorniato da mobili Ikea (dei quali conosce tutti i nomi), Vincenzo vive la sua vita in uno stato di perenne intorpidimento, aspettando sempre qualcosa che, a causa della sua inettitudine, non arriva. Preferisce starsene rannicchiato in una angolo a compiangersi e a lamentarsi del mondo piuttosto che prendere di petto le difficoltà e vincerle. Ma d’altronde, come dargli torto? Le cose però cambiano con l’arrivo di una sexy pm che palesa un interesse nei suoi confronti e un becchino della camorra che decide di farsi difendere proprio da lui. Riusciranno questi eventi a scuoterlo dal suo torpore? P.S. Devo dire che De Silva è un vero e proprio comico, è capace di buttare con nonchalance delle battute ilari e caustiche, che suscitano un’immediata e genuina risata (il che non è simpatico nel caso di lettura in luoghi pubblici).
  • Vivere per addizione” di Carmine Abate: un insieme di storie che parlano di emigrazione da più punti di vista: quella dei genitori del protagonista in Germania (a lavorare in fabbrica), quella del protagonista (che fa la spola tra la Germania del Nord, il Nord Italia e il suo paese calabrese, come insegnante di italiano) e la nuova emigrazione, quella dall’Africa e dal Medio Oriente. Storie diverse che però mantengono un nucleo comune: il distaccamento forzato dalla terra natìa e la nostalgia di “casa”, ma nel contempo la consapevolezza che la propria casa non offre sostentamento né futuro.
    Il protagonista queste sensazioni le ha provate, provando una nostalgia acuta della sua terra, delle sue donne, del suo mare; ma con l’andare del tempo e degli anni, ha maturato una consapevolezza maggiore: egli vive per addizione, la sua identità è formata dal suo “io calabrese”, dal suo “io tedesco” e dal suo “io trentino”. Tutto questo fa di lui sé stesso e questo è sufficiente.
  • “Pappagalli verdi” di Gino Strada: Gino Strada ti fa sentire piccolina, quasi egoista, tu che sei indaffarata nel vivere la tua (più o meno fortunata vita), che ti disperi per una bocciatura o per l’ennesima sindrome influenzale.
    Gino Strada ti fa capire quanto il mondo è cattivo perché se la prende con i più deboli, i bambini, le donne, che non ne possono nulla. La guerra ormai non si combatte più nelle frontiere, ma nelle case, nelle campagne e negli ospedali. È proprio lì che avviene il più terribile dei sacrifici, migliaia di vite umane spezzate per gli interessi di pochi.
    Non è una frase fatta, purtroppo, ma la terribile verità. E questo libro, come l’altro che Gino Strada ha scritto, ti apre gli occhi sulla realtà di quei luoghi.
    Da leggere assolutamente.
  • “Non esiste saggezza” di Gianrico Carofiglio: mi ha fatto piacere ritrovare un vecchio amico (la serie sull’avvocato Guerrieri l’ho divorata), ma questi racconti mi hanno lasciato con un qualcosa di non concluso, uno spiraglio di luce in un cielo grigio ed ovattato.
    Alcuni racconti mi sono piaciuti più di altri, come è normale che sia, ma non sono ancora riuscita a capire il collegamento tra di loro, semmai ce ne fosse uno.
  • “Buskashì. Viaggio dentro la guerra” di Gino Strada: un libro difficile da masticare. Ingombrante, duro, complicato. Ma spaventosamente giusto. Gino Strada ha raccontato gli orrori della guerra, che non ha bandiera né religione. Ci ha detto, un’altra volta, quanto siano fallaci i meccanismi internazionali, quanto siano egoisti e crudeli. Ci ha ribadito che la guerra non si combatte con un’altra guerra. Gli unici a farne la spesa sono i civili, i bambini, le donne, i loro papá.
    Da questo libro emerge solo la punta dell’iceberg, ma basta e avanza per farci rabbrividire e farci sperare che ne esistano altri come Gino Strada, per lasciare accesa una luce di speranza.
  • Il gatto” di Georges Simenon: Simenon delinea con sorprendente bravura i protagonisti, i loro caratteri, il loro aspetto fisico, i loro pensieri e azioni. Riesce a far uscire l’anima più intima della coppia con naturalezza, in un linguaggio semplice ed immediato, senza fronzoli.
    “Il gatto” è una di quelle storie che, alla fine, ti portano a riflettere…sarà anche questo il mio destino? Finirò anche io ad odiare mio marito e a farci la guerra? Spero di no.
    Quel che rimane di questo Simenon è la cruda e nuda realtà, nessun artifizio e nessuna fantasia.
  • “La verità sul caso Harry Quebert” di Joel Dicker: “La verità sul caso Harry Quebert” è sicuramente un thriller avvincente e fa il suo dovere, cioè tenerti incollato alle pagine del libro per scoprire chi è l’assassino di Nola Kellergan.
    Tuttavia il libro è notevolmente prolisso, e anche inutilmente aggiungerei, l’autore, con la metà delle pagine, avrebbe ottenuto lo stesso risultato.
    Inoltre molti passaggi sono incoerenti e irreali; la facilità con cui uno scrittore si addentra nelle ricerche della polizia mi ha lasciata un po’ perplessa.
    Ultima osservazione, i dialoghi tra Nola e Harry mi hanno fatto venire la nausea da quanto sono melensi e sdolcinati. Anche questi esagerati e irreali.
    Per il resto, ripeto, un buon libro, ma non sufficiente per giustificare un tale risvolto mediatico.
  • “Boy A. Storia di un ragazzo imperfetto” di Jonathan Trigell: questo è un romanzo che, per quanto imperfetto, scuote la coscienza, ci fa porre una semplice, ma spietata domanda: può un bambino essere punito per aver compiuto un crimine? Può considerarsi incapace di intendere o volere? Quanto si può dire cosciente dell’azione svolta?
    Non è una domanda facile e non lo è nemmeno la sua risposta.
    C’è un altro tema che spicca prepotente in questo libro: l’opinione pubblica e il ruolo del giornalismo nei processi, soprattutto quelli penali. E la gogna mediatica a cui sono sottoposti gli imputati, la quale, con i suoi “giudici popolari” si sostituisce al tribunale formale; il popolo vuole il sangue, vuole “l’occhio per occhio, dente per dente”, senza lasciare spazio alla giustizia statale, ritenuta blanda e non sufficiente.
    Queste e tante altre riflessioni mi hanno suscitato questo libro, che resta un romanzo privo di speranza, cupo, purtroppo realistico, deprimente anche. Da leggere però.